“Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi”(Albert Einstein). A 32 mesi dal catastrofico terremoto di L’Aquila del 6 aprile 2009 (ore 3:32 am; Mw=6.3; 309 morti; 1600 feriti) l’unica lezione finora impartita da quel drammatico evento non sembra concentrata sulle politiche di prevenzione e mitigazione degli effetti delle catastrofi naturali come avviene in tutti i Paesi civili del mondo. Le nostre città, infatti, sono molto esposte alle tragedie naturali. Dopo i disastrosi terremoti di Haiti, Cile, Nuova Zelanda, India e Giappone con l’ecatombe dell’11 marzo 2011 e dopo le bombe “nucleari” d’acqua sganciate sull’Italia e sul mondo (dalla Natura e non dall’uomo fino a prova contraria) possiamo e dobbiamo immediatamente fare qualcosa di concreto, sulla base dei rapporti e dei progetti scientifici e tecnologici di pubblico dominio (che peraltro vengono illustrati all’Agu Fall Meeting di San Francisco, 5-9 dicembre 2011) invece di perdersi in chiacchiere inutili. Il prestigioso congresso internazionale delle scienze della Terra, ogni anno cerca di chiarire molti quesiti interessanti sul futuro della Terra e di un’umanità concentrazionaria che ha abbandonato il sogno della conquista dello spazio esterno e le campagne dei nostri antenati, per vivere nelle megalopoli più esposte del pianeta! Si danno convegno negli Stati Uniti oltre 16mila ricercatori di tutto il mondo che presentano i loro lavori in centinaia di sezioni scientifiche per illustrare lo stato dell’arte su cambiamenti climatici, meteo spaziale (interazione Sole-Terra, attenzione ai futuri megaflares “X” in grado di devastare la Terra), planetologia, sismologia, vulcanismo, campo magnetico terrestre, oceani e molto altro ancora. L’American Geophysical Union Fall Meeting 2011 (www.agu.org/meetings/) al Moscone Convention Center di San Francisco (California, Usa) vedrà la partecipazione di scienziati e ricercatori italiani. Questi studi vengono letti da chi di dovere? Annus horribilis il 2011 sul fronte delle catastrofi naturali. L’Undici Undici Duemilaundici, magari alle ore 11, che cosa ci riserva? Siamo davvero convinti di poter sfruttare questo mondo a nostro piacimento senza rispettare le regole della Natura? Dobbiamo rimanere impassibili in attesa della fine? Siamo sette miliardi di persone sulla Terra, per la prima volta in assoluto nella storia dell’umanità, ma le grandi concentrazioni urbane sul pianeta Terra, in particolare lungo le coste, espongono gli abitanti a grandi rischi. La tragedia ligure e lo tsunami giapponese dell’11 marzo 2011, hanno impartito una dura lezione ma non si è ancora compresa la morale della storia. Quasi quasi, scherzi a parte, è il caso di lanciare un SOS Interplanetario, prima che sia troppo tardi. Prima che i pifferai magici in servizio permanente effettivo nella politica, ci conducano alla perdizione. Le gravi catastrofi naturali reclamano un cambio di mentalità che obbliga ciascuno di noi ad abbandonare la logica finora seguita per promuovere il rispetto della Creazione che ci è stata affidata. Se l’Italia nel mondo rischia quel disastro (politico, culturale, morale, economico, tecnologico) cui nostro malgrado siamo costretti ad assistere al cinema, in Tv e su Internet, non solo per i fallimenti combinati dai malfattori, dai faccendieri amorali e dai guerrafondai, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono senza reagire, allora bisogna capire che la responsabilità diretta delle future tragedie naturali è esclusivamente delle persone oneste che stanno lì a guardare, non intervengono e poi si lamentano di lutti e tragedie apparentemente incredibili. Con un bel bacio dell’addio al contegno, alla dignità, alla compostezza, alla laboriosità che caratterizza invece il glorioso popolo giapponese di fronte a immani tragedie come quella dell’11 marzo. I giapponesi conservano la propria dignità senza strillare al vento e immediatamente dopo le catastrofi ricostruiscono, meglio di prima, quanto distrutto dalla Natura. Abbiamo imparato la lezione? Perché in Italia e in Europa le leggi già esistono e vanno fatte rispettare, senza più condoni, senza più compromessi con palazzinari e faccendieri bipartisan di turno. Sulla base dell’analisi dei dati geodetici sull’Appennino centro settentrionale, pre e post-terremoto aquilano del 6 aprile 2009, cosa possiamo dire con certezza scientifica? Quali sono i contributi scientifici sullo status geologico, tettonico e sismogenetico d’Abruzzo? Cosa si augura possa fare un giorno la Protezione Civile per prevenire le conseguenze di un terremoto distruttivo sugli Appennini? Quali sono le prospettive per “azzeccare” in Italia una futura previsione sismica? Le informazioni riportate nel documento DISS elaborato dall’Ingv (Basili et alii, 2008, Tectonophysics, 453) possono individuare automaticamente i siti dove si verificheranno i prossimi terremoti forti? Considerata l’importanza di avere una conoscenza approfondita e completa su un problema di altissimo impatto sociale come la difesa dai terremoti, cosa è urgente fare subito? Per il professor Antonio Moretti dell’Università L’Aquila “è un tema molto difficile quello che si sta affrontando. I terremoti non si predicono, come non si predice l’assenza di danni. È bene conoscere il territorio, geograficamente, e le “proprie” faglie, geologicamente. E sapere quali sono i rischi che si corrono a rimanere e/o non rimanere in casa durante un evento sismico di lungo periodo. È bene costruire correttamente le case, e non costruirle in zone a rischio. Geologi e ingegneri dovrebbero lavorare assieme. Di fatto, lavorano i palazzinari nelle ricostruzioni del terremoto. Nulla si investe sistematicamente in conoscenza e prevenzione”. Sulla base dell’analisi dei dati geodetici sull’Appennino centro-settentrionale, pre- e post-terremoto aquilano del 6 aprile 2009, cosa possiamo dire con certezza scientifica? “La geodesia studia la forma della superficie della Terra. Fortunatamente oggi non dobbiamo più andare in giro con stadi e teodoliti, e nemmeno con il laser, perché dal satellite possiamo avere rilevamenti precisi. La tecnica che più interessa per la sismotettonica, cioè le deformazioni della crosta legate ai terremoti, è l’interferometria laser da satellite. In pratica si sovrappongono due immagini prese dallo spazio e rilevate in periodi diversi, ottenendo informazioni assolutamente accurate, fino al centimetro od addirittura al millimetro, delle variazioni di forma avvenute durante un certo intervallo di tempo. Con questa tecnica (le immagini sono ben note) si è potuto vedere che in conseguenza del terremoto, o meglio del movimento lungo il piano di faglia che lo ha generato, il blocco del Gran Sasso si è sollevato di qualche decina di centimetri rispetto alla valle dell’Aquila, che si è invece abbassata. Moltiplicando quei decimetri per migliaia di terremoti, si ottiene da una parte il sollevamento di una catena montuosa (il Gran Sasso appunto) e dall’altra un grosso buco (il “graben” o fossa dell’Aquila) riempito nel corso di centinaia di migliaia di anni da alluvioni, da un lago, da detriti ecc. fino a formare la pianura dell’Aterno. Fin qui niente che non sapevamo”. L’osservazione sistematica e continua delle deformazioni lente del suolo potrebbe segnalare l’avvicinarsi di un nuovo terremoto devastante in Italia? “In effetti, nella saggezza popolare, tra i fenomeni considerati precursori c’è anche la variazione improvvisa ed ingiustificata della portata delle sorgenti, che possono sia aumentare che seccarsi nella fase di deformazione lenta che precede la rottura sismica”. Cosa possiamo fare? “I satelliti ci sono, la tecnologia è avanzata e disponibile, manca solo qualcuno che usi queste immagini per il monitoraggio sistematico e continuo del territorio italiano.
Come dire che la scienza è disponibile, i soldi per i ricercatori no!”. Quali sono i contributi scientifici sullo status geologico, tettonico e sismogenetico d’Abruzzo? “Abbiamo raccolto una quantità di dati enorme, pubblicata su molte riviste e raccolte in un eccellente volume sulla microzonazione a cura della Protezione Civile. Sappiamo come reagiscono determinate costruzioni e quali sono gli effetti di sito che possono aumentare il danno e le vittime; conosciamo le tecniche edilizie per minimizzare i danni; speriamo che se ne possa tenere conto prima del prossimo disastro”. Cosa si augura possa fare un giorno la Protezione Civile per prevenire le conseguenze di un terremoto distruttivo sugli Appennini? “Chiariamo subito un punto: la Protezione Civile deve fare il suo mestiere, e lo ha fatto benissimo in occasione del terremoto del 6 aprile 2009. Dopo un’ora i mezzi di soccorso erano già arrivati da Roma, il che vuole dire che la macchina si è attivata in meno di 10 minuti. Ricordo che in Irpinia i primi soccorsi e l’esercito sono partiti dopo due giorni. Tuttavia la Protezione Civile non può, e non deve, fare il lavoro sporco che il sistema politico non riesce a fare per incapacità generalizzata, ne può fare quella ricerca che è compito della classe scientifica”. Quali sono le prospettive per “azzeccare” in Italia una futura previsione sismica? Le informazioni riportate nel documento DISS elaborato dall’Ingv (Basili et alii, 2008, Tectonophysics, 453) possono individuare automaticamente i siti dove si verificheranno i prossimi terremoti forti? Considerata l’importanza di avere una conoscenza approfondita e completa su un problema di altissimo impatto sociale come la difesa dai terremoti, cosa è urgente fare subito? “Conosciamo molto bene le strutture tettoniche attive della nostra Penisola, abbiamo a disposizione la storia sismica più lunga e meglio conosciuta del mondo (oltre 2000 anni), conosciamo bene i tempi di ricorrenza dei grandi terremoti nelle diverse aree, abbiamo la migliore rete sismica del mondo (una volta tanto, grazie ad Enzo Boschi!), i migliori ricercatori e le tecnologie necessarie al controllo e monitoraggio delle grandi strutture: le deformazioni cui si accennava prima, il radon (quello serio!) e molte altre. Come al solito, manca il buonsenso e la volontà politica. Se nella famosa riunione della Commissione Grandi Rischi si fosse deciso di dare l’allarme ed allertare la popolazione, ed il terremoto non fosse arrivato, ora gli stessi sarebbero inquisiti per procurato allarme. Non si può scaricare sulla classe tecnica e scientifica l’incapacità e la mancanza di responsabilità civile della classe dirigente, e non faccio distinzioni di parte politica”. Insomma, viviamo in un Paese a forte rischio idrogeologico, in città e villaggi esposti a scenari improvvisi e devastanti. Come leggiamo sulla Treccani, la degradazione ambientale è “dovuta principalmente all’attività erosiva delle acque superficiali, in contesti geologici naturalmente predisposti (rocce scarsamente coerenti), o intensamente denudati per la distruzione del ricoprimento boschivo. Può essere prevenuto con opere di imbrigliamento dei deflussi, di consolidamento dei terreni, di rimboschimento e di razionalizzazione delle pratiche agricole”. Sono noti i fattori di rischio. “Rientrano nell’ambito dei fenomeni che alterano, spesso in modo catastrofico, l’equilibrio geomorfologico dei territori, l’erosione idrica diffusa e profonda (frane), le alluvioni, l’erosione marina (arretramento dei litorali), la subsidenza indotta dalle attività antropiche, e le valanghe, ovvero tutti quei fenomeni per combattere gli effetti dei quali si richiedono interventi di difesa del suolo finalizzati alla previsione, prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico. La dimensione del problema è particolarmente rilevante in Italia, dove dal 1918 al 1994 sono stati registrati rispettivamente oltre 17.000 e oltre 7000 eventi franosi e alluvionali calamitosi, i quali nell’ultimo ventennio del Novecento hanno provocato danni al patrimonio stimati in 30.000 miliardi di lire e 645 decessi; la tendenza all’aumento degli eventi idrogeologici catastrofici, fatta registrare negli ultimi anni, si può mettere in relazione con pratiche di gestione del territorio che hanno privilegiato l’occupazione e lo sfruttamento indiscriminati del suolo, e solo marginalmente con mutazioni delle condizioni meteorologiche medie indotte da variazioni climatiche”. È nota altresì la normativa sulla prevenzione. “La normativa per la difesa del suolo ha subito alcune integrazioni, resesi necessarie per la mancata completa attuazione della L. 18 maggio 1989, n. 183, legge quadro in materia. Tale legge individuava nel piano di bacino idrografico lo strumento principale per la gestione del pericolo idrogeologico, demandandone l’elaborazione alle Autorità di bacino, per i bacini di rilievo nazionale, e alle Regioni, per i bacini minori. Tuttavia, palesi conflitti con altri enti competenti sul territorio e carenze tecniche – secondo la Treccani – hanno impedito alle Autorità di bacino di definire i suddetti piani e, nel corso del tempo, anche in ragione della L. 4 dic. 1993, n. 493, che aveva previsto una gradualità nella realizzazione degli stessi, si è proceduto attraverso un’impostazione per progetti formulati secondo aree omogenee o settori tematici (piani di stralcio). Gli atti giuridici per la definizione di questi strumenti di pianificazione sono quasi sempre intervenuti al seguito di catastrofi idrogeologiche: il d. l. 11 giugno 1998, n. 180, confermato dalla L. 3 agosto 1998, n. 267, e corredato per gli indirizzi di coordinamento dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri 29 sett. 1998, è successivo all’evento calamitoso, causato da rovinose colate di fango, occorso in diversi territori del Salernitano, dell’Avellinese e del Casertano, noto con il nome del comune più colpito, Sarno; il d. l. 12 ott. 2000, n. 279, che stabilisce interventi urgenti per le aree a rischio idrogeologico molto elevato, segue i tragici eventi di esondazione, causati da intense precipitazioni, verificatisi nel territorio del comune di Soverato in Calabria. Le Autorità di bacino di rilievo nazionale e interregionale, e le Regioni per i restanti bacini sono vincolate ad adottare piani di stralcio per l’assetto idrogeologico contenenti, in particolare, l’individuazione delle aree a rischio idrogeologico e la perimetrazione di quelle da sottoporre a misure di salvaguardia”. L’attività di pianificazione della lotta al dissesto idrogeologico ha comunque conseguito negli anni più recenti risultati significativi. “Nel 1999, infatti, sono stati approvati alcuni importanti piani di stralcio (di bacino “Attività estrattive” e “Qualità delle acque” da parte dell’Autorità di bacino del fiume Arno, piani di stralcio “Assetto idrogeologico” per il fiume Po, “Riduzione del rischio idraulico” per il fiume Arno, “Difesa dalle alluvioni” e “Tutela ambientale della zona Le Mortine” per i fiumi Liri-Garigliano e Volturno) e sono stati avviati 109 interventi urgenti per la riduzione del rischio idrogeologico in aree che presentano complessivamente una popolazione altamente esposta di 130.000 persone. È stata inoltre predisposta dal ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio, in collaborazione con il Dipartimento per i servizi tecnici nazionali e l’ANPA, la prima analisi omogenea a livello nazionale del pericolo idrogeologico (livello di attenzione per il rischio idrogeologico definito in frazione di un indice calcolato a scala comunale), dalla quale sono risultati 3671 i comuni a rischio molto elevato e a rischio elevato (45,3% del totale dei comuni italiani). Per tale elaborazione gli estensori si sono avvalsi dei dati risultanti dall’attività degli enti preposti allo studio e alla gestione dei fenomeni associati: GNDCI (Gruppo nazionale per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche); Dipartimento della protezione civile; Servizio geologico nazionale; Servizio idrografico e mareografico nazionale. In partic., il GNDCI, nel contesto del progetto AVI (Aree vulnerate italiane), ha ultimato (1998) l’archivio digitale delle zone colpite da frane e inondazioni, provvedendo alla pubblicazione di una carta sinottica a scala 1:1.200.000, nella quale sono riportate oltre 15.000 località che hanno subito eventi catastrofici (9085 frane e 6456 inondazioni); sono stati completati gli studi di verifica del grado di efficacia dell’archivio riguardo alla valutazione e alla perimetrazione della pericolosità da frane e inondazioni. Inoltre, il Servizio geologico nazionale ha portato a termine nel 1999 la determinazione della “propensione al dissesto” dei territori comunali: partendo dalla carta della propensione al d. della litologia affiorante, dedotta dall’elaborazione sintetica georeferenziata dei dati AVI relativi ai fenomeni franosi sulla carta geologica alla scala 1:500.000, è stato calcolato, per ogni formazione geologica, un indice di franosità come rapporto tra il numero di frane occorse nella formazione stessa e l’area della sua superficie affiorante, in base al quale i terreni sono stati classificati ad alta, media o bassa propensione al dissesto; si è successivamente giunti alla carta della classificazione dei territori comunali in base alla propensione al dissesto, calcolando, per ogni singolo comune, la percentuale di territorio ricadente nelle classi precedentemente definite”. Insomma, gli strumenti ci sono. Così come i progetti e, quindi, i soldi per attuarli. Allora di che cosa parlano i talk-show italiani sull’onda emotiva dell’ultimo disastro solo in ordine temporale? Certamente non del Progetto REAKT (acronimo di Strategies and Tools for Real Time Earthquake Risk Reduction) che è stato definito nell’ambito della Commissione Europea come uno dei più ambiziosi progetti di ricerca sulla Riduzione del Rischi Naturali in Europa finanziato nell’ambito del Settimo Programma Quadro. I terremoti sono tra gli eventi naturali cui il territorio europeo è più esposto. Negli ultimi 35 anni (1976-2010) il 20% dei terremoti catastrofici avvenuti nel nostro pianeta si sono verificati in Europa, producendo circa 62.000 morti, ossia il 7% delle vittime per eventi sismici nell’intero pianeta, e danni per circa 111.000 milioni di euro. Parte della popolazione europea, soprattutto nella fascia costiera mediterranea, è esposta a livelli di pericolosità sismica simili a quelli delle popolazioni del Giappone e della zona pacifica degli Stati Uniti. Tuttavia, secondo gli esperti, la vulnerabilità individuale è da 10 a 100 volte maggiore di quelle del Giappone e degli Stati Uniti. Nonostante la popolazione delle città europee non tenda infatti ad aumentare sostanzialmente, il rischio sismico nelle aree urbane tende ad aumentare nel tempo a causa della crescente industrializzazione e del networking di infrastrutture, linee di servizio ed economie, che rendono le città europee sempre più vulnerabili. Le azione preventive, quali l’adeguamento delle strutture esistenti e l’adozione di codici di costruzioni anti sismici, sono la base e l’elemento essenziale di una strategia per mitigare i danni prodotti dai terremoti. Ma nelle città europee una gran parte delle popolazioni vive in centri storici o comunque in aree non costruite con criteri anti sismici adeguati. L’Italia conserva il 70% del patrimonio culturale dell’umanità. Un modo per ridurre la vulnerabilità della popolazione concentrata in aree urbane, è l’utilizzazione di metodologie di mitigazione dei rischi in tempo reale. Come l’early warning sismico-vulcanico-meteo e l’uso di procedure operative basate su previsioni a medio e breve termine che però sono caratterizzati da livelli molto bassi di probabilità assoluta. Procedure di quest’ultimo tipo non sono state finora sviluppate in nessun Paese dell’Unione Europea, mentre quelle le early warning sono applicate intensivamente solo in Giappone, dove esiste un’apposita legislazione che ne regola l’uso. Il metodo tra l’altro ha funzionato bene nel ridurre i danni del recente terremoto di magnitudo eccezionalmente alta (oltre la nona) che ha colpito la costa orientale dell’isola di Hon-shu. Nel progetto REAKT per la prima volta tutte le componenti di un sistema di riduzione in tempo reale del rischio sismico vengono trattate insieme con un approccio sistematico e probabilistico. La sezione scientifica del progetto è articolata in sei parti, che formano una successione logica. Essa inizia dalla caratterizzazione di fenomeni transienti (deformazioni del suolo, pressione di poro, emissioni gassose, micro-sismi) cioè fenomeni variabili nel tempo che possono iniziare da mesi a giorni prima di una scossa distruttiva che essi stessi possono aver contribuito a innescare. Ciò verrà fatto utilizzando metodologie innovative di osservazione nell’area di Corinto, nel Mar di Marmara, lungo la faglia Nord-Anatolica e in Irpinia. Queste informazioni saranno poi inglobate nei modelli di previsione probabilistica dei terremoti. Oggi disponiamo di calcolatori elettronici fantastici che rendono possibile l’impensabile. Un obiettivo del progetto è portare queste metodologie a un livello pre-operativo. Il passo successivo riguarderà i metodi di early warning e la diminuzione dell’incertezza nella previsione dell’accelerazione del suolo sotto l’obiettivo prescelto, migliorando anche la performance dei sistemi automatici per la protezione di edifici. Verrà poi affrontato il problema della vulnerabilità delle strutture e delle reti di servizio sviluppando metodologie che permettano una valutazione della variabilità nel tempo di questa componente. Infine verranno affrontati i problemi della informazione della popolazione e della decisione delle strategie da adottare quando l’informazione su cui basarsi è caratterizzata da grandi livelli di incertezza e tempi molto brevi. Infine il progetto determinerà la fattibilità di applicazione dei metodi early warning per la difesa di diversi tipi di infrastrutture e di servizi. Le applicazioni previste includono una centrale nucleare in Svizzera, alcuni ponti di grande traffico ad Istanbul e a Corinto, la linea di fornitura del gas alla città di Istanbul, ospedali, un grande complesso industriale in Portogallo, la principale centrale elettrica e la linea di trasporto dell’energia elettrica in Islanda, e l’istallazione di un sistema di early warning regionale nei Caraibi. Per quanto riguarda l’Italia gli studi applicativi riguarderanno la fattibilità e l’opportunità della trasformazione della accelerometrica nazionale (RAN) del Dipartimento di Protezione Civile in una rete di early warning nazionale, l’applicazione a difesa del tratto Nola-Baiano (il più vicino alla faglia dell’Irpinia) della Ferrovia Circumvesuviana, e l’implementazione del metodo in due scuole, una a Sant’Angelo dei Lombardi, una delle zone più devastate dal terremoto dell’Irpinia del 1980, e l’altra nell’area vesuviana. Insomma, servono progetti concreti per salvare vite umane prima delle catastrofi. Questo è un atto di Giustizia.
Nicola Facciolini
Fonte: http://www.improntalaquila.org
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