lunedì 25 novembre 2019

La demenza digitale e le nuove forme di analfabetismo

L’attrice americana Jennifer Connelly descriveva così, già una dozzina di anni fa, il suo modo di utilizzare il tempo: “Quando faccio sesso mi piace leggere un libro e telefonare. È così bello fare tante cose insieme”.

La demenza digitale e le nuove forme di analfabetismo
Un esercito di cerebrolesi, che non guardano dove mettono i piedi, ma camminano guardando il telefono


  Molti ragazzi hanno oggi un modo analogo di destreggiarsi tra mille impegni. Una ragazza di quindici anni dice: “Mi tengo in contatto costante con gli amici con gli sms, intanto controllo la posta elettronica, faccio i compiti, oppure gioco al computer mentre telefono”. Un altro quattordicenne, che mostra anche lui di annoiarsi quando non succede tutto contemporaneamente, aggiunge: “Di solito faccio i compiti già a scuola. Altrimenti, tengo un libro sulle ginocchia e mentre accendo il computer faccio i compiti di matematica o scrivo una frase. Mentre scarico le e-mail svolgo gli altri compiti”. La madre di un altro quindicenne descrive così la preparazione del figlio per una verifica in classe: “I libri restano chiusi nello zaino, mentre il portatile è sempre aperto sulla scrivania. Sullo schermo c’è aperto un documento di storia, inglese o fisica, che nasconde la pagina Facebook o iTunes. Intanto con le cuffie ascolta un podcast e a volte, per concentrarsi ancora di più, guarda un video su YouTube”.Queste sono solo alcune delle testimonianze riportate da Manfred Spitzer – un neurologo che dirige attualmente la clinica psichiatrica e il Centro delle neuroscienze dell’Università di Ulm – nel suo Demenza digitale (Corbaccio editore), un saggio che spiega come l’uso diffusamente improprio delle nuove tecnologie corra il serio rischio di renderci tutti più stupidi entro pochi anni. La tesi centrale avanzata dall’autore è che l’utilizzo dei media digitali nel campo dell’istruzione abbia “effetti collaterali che esulano dall’abuso diretto” e che tali effetti collaterali non vengano presi abbastanza in considerazione.



Quando si afferma che a scuola si può migliorare lo studio grazie all’utilizzo dei media digitali, si tende a dimenticare che non esistono dimostrazioni scientifiche di questa tesi, mentre esistono molti indizi che forniscono buone ragioni per ritenere vero il contrario.Già nel 1997 Todd Oppenheimer aveva cercato di mettere in guardia dalla follia dei computer e le sue previsioni si sono almeno in parte rivelate giuste negli anni successivi. In particolare, l’ampia introduzione di Internet in ambito scolastico non pare abbia provocato i risultati sperati: un gruppo di ricercatori portoghesi e americani ha esaminato gli effetti del suo utilizzo in novecento scuole portoghesi e il risultato rilevato è stato un peggioramento del rendimento scolastico proporzionale al suo uso. Molte altre ricerche, elencate in dettaglio da Spitzer, hanno confermato questo risultato su scala mondiale. Naturalmente, non si tratta di un dato imprevedibile. La riduzione del tempo che gli adolescenti dedicano alla lettura è direttamente proporzionale a quello che passano davanti ai videogiochi o a chattare, e questo determina a sua volta un peggioramento della qualità della lettura e dell’assimilazione profonda dei suoi contenuti. I media digitali, ben lungi dal rivelarsi strumenti ideali di apprendimento, in quanto sottraggono lavoro mentale autonomo si sono generalmente dimostrati scorciatoie che favoriscono un apprendimento frettoloso, distratto e superficiale.Inoltre, diverse indagini inducono a ritenere che l’ampio utilizzo, anche da parte dei più giovani, dei social network, favorisca una diminuzione dei contatti reali e conduca a “una diminuzione delle dimensioni delle zone cerebrali preposte alle competenze sociali nei bambini e, di conseguenza, a una diminuzione della competenza sociale”. Sia nei bambini che negli adolescenti si può anzi registrare anche l’aumento del senso di solitudine, dell’insonnia e di varie forme di depressione in misura proporzionale al numero di ore trascorse davanti al pc. L’ampia diffusione di videogiochi violenti induce poi a sviluppare una sempre maggiore attitudine ad assumere comportamenti violenti, mentre riduce la capacità di provare compassione o empatia, il che a sua volta rende sempre più problematico lo sviluppo di soddisfacenti e armoniche relazioni sociali e personali, con la conseguenza che molti giovani non riescono ad interagire positivamente con il mondo che sta loro intorno e con i loro stessi coetanei.Ma il quadro inquietante tracciato da Spitzer non si esaurisce qui, perché man mano che si sviluppano comportamenti multitasker, ovvero animati dal gusto di fare molte cose contemporaneamente, diminuisce anche la capacità di autocontrollo e di rielaborazione attiva delle informazioni. L’incremento delle competenze concernenti l’utilizzo dei media a discapito di quelle tradizionali relative alla lettura e alla scrittura comporta una sempre maggiore difficoltà nel conseguire un reale accrescimento delle proprie conoscenze. Senza una solida cultura di base, per esempio, risulterà impossibile trovare su internet le informazioni che si stanno cercando: chi legge poco e poco ha appreso, avrà sempre enormi difficoltà a divenire più colto attraverso l’aumento delle proprie competenze digitali, perché “è necessario avere conoscenze preliminari di un determinato contenuto per poterlo approfondire. Chi non è convinto, può provare a inserire in un motore di ricerca un contenuto di cui non sa assolutamente niente. Si accorgerà ben presto che Google non è in grado di aiutarlo. Vale invece il contrario: più cose so, prima troverò in rete anche i dettagli che mi erano sconosciuti, più individuerò qualcosa di nuovo e interessante e più in fretta completerò le mie ricerche”.
L’autore del saggio si chiede, nella parte finale, come potrebbe essere la società del futuro se i giovani che oggi passano tante ore a uccidere mostri alieni sullo schermo di una PlayStation, a navigare senza meta o a scambiarsi brevi battute sui social network investissero il loro tempo a leggere e a studiare alcune delle infinite cose interessanti che varrebbe la pena conoscere e scoprire, se invece che ai molti intrattenimenti mediatici dedicassero il loro tempo ad approfondire quanto davvero potrebbe interessarli e appassionarli per tutta la vita facendo nel contempo crescere la loro capacità di decifrare il mondo e di comprendere se stessi e gli altri. L’impressione è che tale ipotetica società potrebbe risultare un po’ più umana e vivibile, spiritualmente più ricca e più capace di affrontare razionalmente le proprie emergenze sia di quella attuale sia di quella che si sta profilando all’orizzonte grazie alla quantità esorbitante di tempo che si spende con vari media digitali.
Il problema sollevato da Spitzer non riguarda però solo i giovani e gli studenti, ma anche i loro insegnanti, e ha investito tutto il mondo della scuola. In questo contesto, mentre in altri paesi si stanno riconsiderando le ragioni che hanno indotto in passato i rispettivi governi, anche per assecondare gli interessi delle lobbies digitali, a spendere ingenti somme per informatizzare la didattica, la scuola italiana sta procedendo, con un ritardo che potrebbe rivelarsi una risorsa se fosse accompagnato da un effettivo ripensamento, verso la sua ulteriore informatizzazione. In questo modo, grazie al crescente prestigio sociale di questi strumenti e al livello d’interattività che sanno garantire, i tempi e il coinvolgimento più lento che caratterizzano la lettura risulteranno sempre meno stimolanti ed appaganti.Col tempo, quindi, la progressiva disabitudine alla lettura, indotta in buona parte da un uso incontrollato e acritico dei social network, dei videogiochi e di altre attività digitali, provocherà una sempre minore capacità di trarre piacere dalla lettura e favorirà un incremento di quell’analfabetismo di ritorno che caratterizza già buona parte del nostro mondo giovanile, ma determinerà anche, più in generale, una minore capacità di approfondire e di riflettere in maniera critica su quel che si legge. Saranno in molti, naturalmente, a lamentarsi in coro di questo fenomeno, ma purtroppo allo stato attuale è difficile immaginare qualcuno che possa avere la lucidità e il coraggio necessari per affrontarlo seriamente.

Gustavo Micheletti 

Fonte 

venerdì 4 ottobre 2019

La “scienza” delle multinazionali sta portando il Pianeta al collasso


Per fermare la "falsa" scienza delle multinazionali che sta portando il Pianeta al collasso è necessario riconoscere un nuovo sistema di conoscenze basato sull'interazione tra metodo scientifico e sapere tradizionale nonché sul pluralismo e la libera circolazione delle informazioni. Soltanto la sovranità sulle conoscenze può garantire infatti la condivisione del potere. 

 Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ha annunciato di volersi dotare di un consiglio scientifico sullo sviluppo sostenibile che prevede la presenza di personalità riconosciute a livello internazionale come Enrico Giovannini, Jeffrey Sachs e Vandana Shiva. Una decisione che ha scatenato le polemiche di chi, evidentemente, non gradisce un’educazione volta ad un reale cambiamento di modello sociale ed economico.

 

 Navdanya International, l’associazione fondata da Vandana Shiva in difesa della sovranità delle comunità di tutto il mondo, ha risposto a tali critiche con un comunicato stampa in cui ci ricorda i dati economici, ambientali e sociali di questo modello di sviluppo insostenibile denunciando la situazione.


L’associazione Navdanya International, nel comunicato stampa, ci offre anche il Manifesto sul Futuro dei Sistemi di Conoscenza, scritto da ricercatori internazionali, tra cui Vandana Shiva. L’argomento è il confronto tra i saperi scientifici del modello industriale capitalistico e i saperi tradizionali o indigeni che sempre più enti governativi delle Nazioni Unite invocano di voler necessariamente integrare.

Scienza, conoscenza, sapere
L’inquisito è il modello di conoscenza basato sul metodo scientifico riduzionista dominante. “Il paradigma culturale riduzionista, che studia i singoli fenomeni, ha portato a una super-specializzazione di discipline e organizzazioni, che trasferiscono poi il sapere frammentato al mondo della produzione. Questo modello crea gerarchie e opera una divisione tra persone normali ed esperti, tra diverse parti dei sistemi di conoscenza e di produzione… Il riduzionismo non si limita a ridurre meccanicamente i sistemi alle loro parti, ma riduce anche il paesaggio della conoscenza”.

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Bolivia, studentessa – Foto Pixabay

 Il modello scientifico riduzionista e il potere
Il metodo riduzionista, nato con la scienza moderna allo scopo di semplificare lo studio dei sistemi naturali, ha portato a un enorme progresso in campo tecnologico, ma anche a una profonda frammentazione del sapere e a una mancanza di capacità di sintesi. Questo ha creato un impoverimento del sapere diffuso, forti disuguaglianze tra cittadini, tra Nord e Sud del mondo e tra i diversi saperi espressi dall’umanità.

Il connubio tra scienza e potere economico ha limitato la circolazione delle conoscenze scientifiche al di fuori degli ambiti “riconosciuti” ma ha anche marginalizzato i saperi indigeni accumulati dalle culture millenarie soprattutto in ambito agricolo e farmaceutico e soprattutto ai danni delle donne, detentrici del sapere tradizionale nella maggior parte delle culture.


Il sapere popolare è basato su osservazioni ripetute nel tempo e si arricchisce man mano che si confronta con i cambiamenti e la complessità della natura nella continua interazione con l’ambiente. È un sapere connesso alla diversità, alle relazioni tra i fenomeni, alla mutevolezza e ciclicità di ciò che accade nella realtà naturale.

La cultura del paradigma riduzionista scientifico riesce a “riconoscere” solo ciò che è scritto, quantificato  e misurabile basandosi spesso su osservazioni ripetute nello spazio per un periodo limitato. Ignora la qualità ed esclude caratteristiche autorganizzanti, adattative e auto-rigeneranti dei sistemi viventi o ecologici.

Il riduzionismo in agricoltura
Ad esempio se applichiamo questo confronto in agricoltura vediamo che da migliaia di anni i contadini e le contadine, di ogni parte del mondo, hanno migliorato le proprie piante, addomesticandole, ibridandole e selezionandole, producendo maggiore biodiversità e quindi grande capacità di adattamento secondo le proprie esigenze.

Il sapere “scientifico” che ha prodotto il “miglioramento genetico” a fini commerciali si è espanso su larga scala con una progressiva e nefasta perdita di biodiversità e di suolo fertile in grande parte del Pianeta invertendo il processo di miglioramento delle sementi. “Mentre nel sapere tradizionale le sementi si adattano a un ambiente che cambia, nella scienza riduzionista le sementi vengono create in laboratorio e poi l’ambiente viene modificato per adattarsi alle sementi stesse”.

Quindi quale ricerca scientifica, quali conoscenze stanno trainando le azioni dei governi? Quali istituzioni scientifiche controllano cosa sia conveniente fare?

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Comunità del Botzwana – foto Pixabay

La privatizzazione delle conoscenze
La scienza privatizzata è ormai poco controllabile da chi non è interno al sistema. Inoltre questo meccanismo è diventato un ostacolo al progresso della scienza stessa perché limita l’accesso alle conoscenze brevettate, agli “esperti” riconosciuti dalla stessa comunità scientifica. La privatizzazione delle conoscenze sta arrestando i processi di apprendimento e di innovazione perché blocca la condivisione dei saperi.

Ancora più grave è che, attraverso la biopirateria, le multinazionali farmaceutiche e biotecnologiche si appropriano delle conoscenze botaniche, mediche, biologiche e agricole dei popoli indigeni che vengono espropriati delle loro terre e dei saperi che loro stessi hanno conquistato.

Attraverso la privatizzazione delle conoscenze si è operata una perdita di sovranità di intere culture e di larga parte dei cittadini. Progettare una nuova società necessita di un nuovo sistema di conoscenze basato sull’interazione tra metodo scientifico e sapere tradizionale e sulla libera circolazione dei saperi.

 

È necessario riconoscere ai diversi saperi un pari riconoscimento culturale ed economico capace di arricchire le opportunità di conoscenza utili alla sopravvivenza di tutti. Inoltre è necessario rafforzare l’ottica pluralista sostenendo un processo di ibridazione reciproca e di libera diffusione dei saperi.

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Indios Waorani salvano 200.000 ettari dell’Amazzonia dal petrolio, vincendo la causa contro il governo dell’Ecuador – 2019 – foto Pixabay

La società dell’informazione
Alla informazione della società tecnologica che caratterizza i nostro modello potrebbe essere utile integrare anche quello delle culture tradizionali non solo perché più rispettoso ed equo ma anche perché basato su un processo di apprendimento più sano. Alla consumistica, veloce e frammentata quantità di informazioni che ci investe quotidianamente e da cui siamo abituati a doverci difendere potremmo sostituire una acquisizione di un sapere più adatto a ciò che serve, alle conoscenze per noi essenziali.

A cosa serve, infatti, produrre e consumare conoscenze scollegate dal contesto d’uso, fuori dal controllo e dalla “domanda” di chi poi le utilizza?


La sovranità sulle conoscenze è il diritto del popolo di partecipare alla creazione e fruizione delle conoscenze che riguardano la propria vita. Quindi il sapere popolare deve essere riconosciuto come strumento di autodeterminazione, di sicurezza nelle possibili instabilità e di potenzialità evolutiva.

Sempre più reti ibride di singoli cittadini, ricercatori, tecnici, consumatori e produttori scambiano su base paritaria conoscenze attraverso la maggior facilità di circolazione di persone, tecnologie dell’informazione e di luoghi virtuali rimasti open source (liberi e non soggetti a controllo). Così esperti locali, mediatori culturali, comunicatori e teorici si confrontano per costruire sistemi di conoscenza paralleli e poter rispondere alle reali necessità.

“Tutti gli esseri umani sono soggetti in grado di conoscere, indipendentemente da classe sociale, razza, genere, religione, etnia od età. Tutte le comunità e culture sono creatrici di sapere.”

Annalisa Jannone

Fonte



giovedì 1 agosto 2019

“Crimini contro l’umanità”: La Francia denunciata per 193 test nucleari nella Polinesia francese

 

L’ex presidente della Polinesia francese, Oscar Temaru ha annunciato, in una riunione della commissione delle Nazioni Unite incentrata sulla decolonizzazione, che ha presentato una denuncia contro la Francia davanti alla Corte penale internazionale per i test nucleari nel Pacifico del sud effettuati nel ventesimo secolo.
 “Con un grande senso del dovere e determinazione, abbiamo presentato una denuncia al Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità il 2 ottobre. Questo caso cerca di responsabilizzare tutti i presidenti francesi sui test nucleari contro il nostro paese”, ha dichiarato Temaru, citato da AFP, aggiungendo che i test sono stati imposti agli isolani “con la diretta minaccia di imporre un governo militare se li avessimo rifiutati.” Per Temaru, “i test nucleari francesi non sono meno che il risultato diretto della colonizzazione” e presentare una denuncia era un dovere morale prima di “tutto per le persone che sono morte a causa delle conseguenze del colonialismo nucleare”. Tra il 1960 e il 1996, in quella comunità francese d’oltremare in Oceania, sono stati effettuati 193 test nucleari che hanno coinvolto 150.000 civili e soldati. Inoltre, nel 1968 la Francia effettuò il suo primo test termonucleare multistadio sull’atollo di Fangataufa, con una potenza esplosiva che era 200 volte maggiore di quella della bomba di Hiroshima. I test hanno causato 368 casi di fallout radioattivo nella Polinesia francese, composto da oltre 100 isole e atolli, ha dichiarato Maxime Chan, membro di un’associazione locale per la protezione ambientale, alla commissione ONU, aggiungendo che anche i rifiuti radioattivi erano stati scaricati nell’oceano in violazione degli standard internazionali. A gennaio, il Ministero della sanità della Polinesia francese ha pubblicato dati che dimostrano che negli ultimi 15 anni sono state diagnosticate cancro a circa 9.500 persone. Precedenti studi condotti negli ultimi dieci anni hanno stabilito una “relazione statistica significativa” tra i tassi di cancro della tiroide e l’esposizione al fallout radioattivo da test nucleari francesi. Nel 1996, l’allora presidente francese, Jacques Chirac, mise fine al programma di test nucleari e assegnò un pagamento annuale di 150 milioni di dollari alla Polinesia francese. Tuttavia, la Francia ha negato a lungo ogni responsabilità per gli effetti dei test, sia ambientali che sulla salute degli abitanti della zona, mentre la regione ha cercato di ottenere un risarcimento per il danno subito. Nel 2013, documenti declassificati hanno rivelato che le conseguenze del plutonio utilizzato nei test coprivano un’area molto più ampia di quanto inizialmente ammesso da Parigi. La popolare isola turistica di Tahiti in particolare è stata esposta a un livello di radiazioni 500 volte superiore al massimo consentito. Temaru ha affermato che la Francia “ha ignorato e mostrato disprezzo” per le ripetute proposte presentate dal 2013 a sedersi al tavolo dei negoziati sulla questione sotto la supervisione delle Nazioni Unite. 
via L’Antidiplomatico

giovedì 23 maggio 2019

“Il Glifosato provoca il cancro”. E ora la Bayer trema!!!

Arriva la seconda condanna e stavolta dovrà pagare 80 milioni e poi il crollo in Borsa…

Ma per l’Unione Europea da noi il Glifosato si può usare tranquillamente… Mica possono dare un dispiacere ai padroni Tedeschi?

 Risultati immagini per effetti glifosato

Nuovo colpo per Bayer, il colosso chimico e farmaceutico tedesco che lo scorso anno ha comprato l’americana Monsanto per 63 miliardi di dollari. Una giuria statunitense ha riconosciuto a un residente della California danni per oltre 80 milioni di dollari: la giuria ritiene che l’uomo abbia contratto un cancro a causa della sua esposizione al diserbante Roundup a base di glifosato (sostanza al centro di controversie e polemiche negli Usa e in Europa), prodotto da Monsanto.
La tesi è che il gruppo Usa abbia agito in modo negligente nel non mettere adeguatamente in guardia sui rischi associati al prodotto. Bayer ha replicato dicendosi “deluso” e promettendo di fare ricorso.
La decisione
La decisione della giuria, attesa dagli analisti, è stata presa nella seconda fase del processo in questione. Nella prima fase l’attenzione era stata rivolta alle prove scientifiche per determinare se esisteva un legame tra il diserbante e il linfoma non-Hodgkin contratto dal querelante, Edwin Hardeman. La conclusione, raggiunta il 19 marzo scorso dai sei membri della giuria, è stata che Roundup è stato un “fattore sostanziale” nel provocare il cancro a Hardeman. Nella seconda fase del processo i giurati si sono invece concentrati sulla responsabilità di Monsanto.
Lo scontro tra i legali
La rappresentante legale dell’uomo, Jennifer Moore, si è rivolta alla giuria dicendo: «Un’azienda responsabile avrebbe testato il suo prodotto. Un’azienda responsabile avrebbe detto ai consumatori se sapeva che poteva provocare un cancro. Monsanto non ha fatto nessuna di queste due cose». Per questo lei ha chiesto alla giuria di mettere fine alle «menzogne» di un gruppo interessato solo a fare soldi. Il legale di Monsanto, Brian Stekloff, ha invece sostenuto il contrario dicendo che l’azienda «ha fatto test, li ha presentati ai regolatori e ha agito con responsabilità». Secondo lui è «offensivo» che venga venduta la tesi secondo cui i dipendenti di Monsanto ogni giorno vanno a lavorare pensando di fare ammalare la gente.
Rischio reazione a catena per le cause
Ora Bayer dovrà fare i conti con cause legali lanciate da oltre 11.200 tra agricoltori, giardinieri e altre persone che hanno usato Roundup, un diserbante che per l’azienda produttrice è sicuro come lo è il suo ingrediente attivo, il glifosato. Ora sale l’attesa per il prossimo processo che inizierà oggi a Oakland. In questo caso è una coppia settantenne, Alva e Alberta Pilliod, a sostenere di essersi ammalati del linfoma non-Hodgkin per avere usato per decenni il diserbante. Altri cinque casi finiranno sui banchi di tribunale quest’anno. Gli analisti aspettano di capire l’esito di almeno due-tre processi per iniziare a stimare quanto il diserbante costerà a Bayer.
Ma per la Commissione Europea il Glifosato si può usare tranquillamente…
Nel novembre del 2017 il Comitato d’appello dell’Unione Europea, formato da rappresentanti di tutti gli stati membri, ha approvato il rinnovo per altri cinque anni dell’autorizzazione del glifosato. La decisione ha fatto discutere perché il glifosato è da anni al centro di un ampio dibattito tra scienziati, organismi di controllo e aziende: per esempio è classificato come sostanza “probabilmente cancerogena per gli esseri umani” dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), ma “sostanza non cancerogena” dall’Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA).
Nella riunione, l’Italia ha votato contro, così come la Francia, mentre – ma tu guarda un po’ – la Germania (il cui voto era rimasto incerto per diverso tempo) ha votato a favore, sbloccando una situazione di impasse e spostando l’ago della bilancia verso lo sciagurato rinnovo.

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