venerdì 17 dicembre 2010

USTICA: IL PASSATO CHE NON PASSA

(Articolo pubblicato su Limes di dicembre 2006)

Bologna, 27 giugno 1980: dall'aeroporto Guglielmo Marconi parte il volo Itavia 870 per Palermo. Sono le 20.08, due ore dopo l'orario previsto; l'arrivo è programmato per le 21.15. Il DC 9 viaggia regolarmente, con a bordo 81 persone: 64 passeggeri adulti, 11 ragazzi tra i dodici e i due anni, due bambini di età inferiore ai 24 mesi e 4 uomini d'equipaggio. Durante il volo non é segnalato alcun problema, ma poco prima delle 21 del DC9 si perdono le tracce radar.

La mattina dopo, tutti i giornali riportano notizie della tragedia: l’aereo è precipitato, tutti i passeggeri sono deceduti. Si cominciano anche a fare le prime ipotesi sulle cause del disastro: esplosione in volo, rottura delle turbine, manovra errata del pilota, collisione in volo con aereo Nato, distacco del cono di coda, collisione con un aereo militare straniero, razzo impazzito, meteorite o frammento di un satellite.

Passano i giorni, sui giornali prendono corpo gli interrogativi: "Il silenzio delle autorità alimenta i sospetti di una collisione”. “Forse i radar della Nato hanno ‘visto’ la tragedia del DC9 scomparso in mare". "Il DC9 Itavia aveva strutture logore oppure è stato investito da ‘qualcosa’". Nonostante questi interrogativi, poco a poco la notizia scompare dai giornali e le indagini si adagiano sull’ipotesi più tranquillizzante: la "tragica ovvietà" che purtroppo gli aerei cadono.

Ma perché per tanto tempo si è creduto che il DC9 fosse caduto per una fatalità? Così ha voluto l'Aeronautica Militare. Lo denuncia la relazione finale della Commissione Parlamentari Stragi, presieduta dal senatore Gualtieri, approvata nella seduta del 14-15 aprile 1992: "L'orientamento del Sios (servizio segreto) Aeronautica andò nel senso di privilegiare la tesi del cedimento strutturale. A questo orientamento furono improntati tutti gli atti compiuti dall'Aeronautica nelle prime fasi dell’inchiesta, anche se sin dai giorni immediatamente successivi all'incidente, vi erano informazioni che avrebbero potuto indirizzare le indagini in tutt'altra direzione". Il verdetto di cedimento strutturale già pronunciato priva l'azione della magistratura di ogni mordente: si perdono reperti, non si fanno svolgere perizie, non si interrogano i militari in servizio, non si ascoltano registrazioni.

Solo il 16 marzo 1989 il primo collegio peritale, nominato nel novembre 1984, consegna al giudice istruttore Bucarelli la sua relazione. I sei periti che compongono il collegio rilasciano alla stampa una breve dichiarazione: "Tutti gli elementi a disposizione fanno concordemente ritenere che l'incidente occorso al DC9 sia stato causato da un missile esploso in prossimità della zona anteriore dell'aereo. Allo stato odierno mancano elementi sufficienti per precisarne il tipo, la provenienza e l'identità".

Ricevono dal giudice il compito di proseguire le indagini per identificare il tipo di missile, ma le forti pressioni fanno vacillare le iniziali certezze investigative: due periti su sei non sono più certi del missile. Poi, a seguito di uno scontro con l’on. Giuliano Amato, che ha seguito la vicenda come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Bucarelli abbandona l'indagine, che viene affidata al giudice Rosario Priore.

Il 15 maggio 1992 i generali, ai vertici dell'Aeronautica all’epoca dei fatti, sono incriminati per alto tradimento, "perché, dopo aver omesso di riferire alle Autorità politiche e a quella giudiziaria le informazioni concernenti la possibile presenza di traffico militare statunitense, la ricerca di mezzi aeronavali statunitensi a partire dal 27 giugno 1980, l'ipotesi di un'esplosione coinvolgente il velivolo e i risultati dell'analisi dei tracciati radar, abusando del proprio ufficio, fornivano alle Autorità politiche informazioni errate."

Nei primi mesi del 1994 vengono resi noti i risultati delle perizie ordinate dal Giudice Priore. Queste perizie parziali, che dovrebbero essere le fondamenta della perizia conclusiva, escludono che sul DC9 sia esplosa una bomba. Non ci sono tracce di esplosione sui cadaveri, non ci sono segni di "strappi" da esplosione sui metalli, le analisi chimiche non danno spazio all'ipotesi di una bomba e anche gli esperimenti e le simulazioni di scoppio danno risultati negativi. Invece, alla fine del luglio 1994 gli stessi periti si pronunciano per la bomba, anche se poi non sanno dire come era fatta, né dove era collocata. Ma per i PM Coiro, Salvi e Rosselli e lo stesso giudice Priore, "il lavoro dei periti d'ufficio è affetto da tali e tanti vizi di carattere logico, da molteplici contraddizioni e distorsioni del materiale probatorio da renderlo inutilizzabile”.

Le indagini si concentrano allora sullo scenario radar, per capire la situazione di un cielo che si vuol far credere vuoto da ogni presenza di aerei militari si chiede anche la collaborazione della Nato. Propri anche grazie a questa collaborazione, che ha portato a nuove conoscenze nel panorama radar, a fine agosto del 1999 il giudice Priore chiude l’istruttoria affermando che “l'incidente al DC9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento”. Infatti, l’attenta lettura dello scenario radar della sera del 27 giugno 1980 rivela che il volo del DC9 era affiancato da un velivolo nascosto, il cui inserimento è avvenuto nella fase iniziale del volo, sopra la Toscana. In cielo è anche segnalata la presenza di un aereo-radar AWACS impegnato in una missione non identificata sull'Appennino Tosco-Emiliano, mentre i radar continuano a registrare attività aeree intorno al DC9 nell'area di Ponza e, pochi secondi dopo l'incidente, la rotta dell’aereo civile è attraversata da uno o due velivoli militari. Dall'esame dei tabulati agli atti, dalle conversazioni telefoniche e dalle dichiarazioni NATO, nell’imminenza dell’incidente risulta inoltre un’intensa attività aerea militare sui cieli del Tirreno, sempre negata dall'Aeronautica Militare italiana.

Vale la pena segnalare che il quadro che emerge dalle pagine della sentenza di Priore era già indicato anche dal National Transportation Safety Board, ente americano per la sicurezza dei voli, una cui relazione del novembre 1980 affermava che un oggetto non identificato aveva attraversato l'area del luogo dell'incidente da ovest verso est a grande velocità, nello stesso momento del verificarsi dell'incidente.

Esattamente contrarie le informazioni militari alla base delle dichiarazioni del Ministro della Difesa Lagorio, che ai primi di Luglio 1980, davanti al Senato, sosteneva che non si erano avvistate tracce che non fossero correlabili con il traffico conosciuto.

E nel dicembre 1980, il vertice dell’Aeronautica, che con una nota ufficiale informa il Governo che l'incidente è accaduto in una zona libera da altri voli, senza nessun segno né di collisione né di esplosione esterna o interna. Uno scenario che lascia spazio soltanto all’ipotesi di un cedimento strutturale.

Erano dati "inequivocabilmente significativi" quelli che i militari decisero di non trasmettere. Ancora i giudici: "Si tratta sostanzialmente di una prova di forza nella quale l’Aeronautica Militare mette in gioco la propria autorevolezza e credibilità nei confronti non solo dell’autorità politica, ma anche di quella giudiziaria…prospettando, contrariamente alla realtà emergente nelle varie fase delle indagini, una situazione di incontrovertibile certezza". Non vi è dubbio che "l'obiettivo fu raggiunto, se si pensa che dal dicembre 1980 non si segnalano significative iniziative d’indagine con riferimento alla problematica dei dati radar e della eventuale presenza di altri aerei in prossimità del DC9".

Il 1980 vede una situazione internazionale di estrema tensione. L’anno si apre con l’invasione sovietica dell'Afghanistan, iniziata nel dicembre del ’79. Per gli Stati Uniti – dove, a febbraio, iniziano le primarie – il 1980 è l'anno del fallito blitz per la liberazione dei 52 ostaggi detenuti in Iran, che contribuirà al declino dell'amministrazione Carter. In Europa, cresce la tensione sul problema del riarmo nucleare, con l’amministrazione americana che preme per l’installazione in Europa dei nuovi missili Cruise e Pershing 2, che dovrebbero bilanciare gli SS 20 sovietici, mentre nel mese di agosto, in Polonia, scoppia lo sciopero degli operai di Danzica. A questo scenario si aggiungono i problemi legati alla politica del colonnello libico Gheddafi, che si oppone alla firma del trattato di collaborazione tra Italia e Malta, interpretato come atto ostile. Dalla metà di giugno, si intensifica la tensione tra Egitto e Libia, con l'Egitto che dichiara lo stato di emergenza nella regione di confine.

In questo clima, la presenza militare Nato e soprattutto Usa sul fronte sud viene rafforzata, con il trasferimento di forze aeree negli aeroporti dell'Italia meridionale e l'intensificarsi della presenza di unità navali nel Mediterraneo. La tensione sale notevolmente a maggio: con la morte di Tito si teme un'invasione sovietica del paese, quasi una replica dell'invasione dell'Afghanistan.

A livello giornalistico si è sempre affermato che la vicenda Ustica è stata una tragica partita tra Italia, Usa, Francia e Libia. Non sembra trattarsi soltanto di interpretazioni giornalistiche, dal momento che questi paesi sono stati più volte indicati da personalità qualificate.

In un appunto trasmesso dall’ammiraglio Martini al Ministro della Difesa nel giugno 87, si leggeva: “Sembra che si stiano creando le premesse affinché le indagini si concludano con l’accertamento della responsabilità libica e lo scagionamento definitivo dei francesi. A tal proposito è di rilievo notare che: il recupero del DC9 Itavia è stato affidato alla società francese Ifremer nonostante i suoi legami con i Servizi segreti francesi; la perizia tecnica della “scatola nera” verrà effettuata dagli USA, dei quali sono noti gli orientamenti anti-libici; in passato sono già emerse indicazioni dell’esistenza di un “coordinamento” tra i Servizi segreti francesi e USA nella lotta contro il terrorismo internazionale e in funzione anti-libica.”. Nel corso dell’audizione dello stesso ammiraglio Martini in Commissione Stragi del 27 giugno 1990, questi precisava che, esclusi i libici che non avevano autonomia sufficiente né basi militari prossime alla zona, ed esclusa la presenza di velivoli italiani, le uniche nazioni ad avere possibilità operative nella zona erano la Francia e gli Stati Uniti. Soltanto molto più tardi il generale Arpino ha allargato il campo delle ipotesi, ventilando in Commissione Stragi la possibile presenza di portaerei inglesi.

Dice più esplicitamente il giudice Priore: "Se si pone tra le ipotesi della caduta del DC9 uno scenario esterno, in cui si suppone la presenza di più velivoli oltre quello civile; se tale ipotesi, venendo a cadere le altre, si rafforza; se emergono evidenze di velivoli coperti e di altri in caccia, è giocoforza dirigere le ricerche verso Paesi le cui aeronautiche erano al tempo in grado di esser presenti nel cielo del disastro... E poiché col tempo l’ipotesi della presenza di una portaerei ha preso vigore al punto che questa possibilità è stata ammessa anche dalla NATO, l’ambito delle investigazioni s’è ristretto al massimo. La Francia e gli Stati Uniti dislocano continuativamente portaerei e mezzi aeronavali nel Mediterraneo per la strategicità e la conflittualità dell’area e le forze armate di qualunque altro Paese non avevano sistemi radar in grado di monitorare l’area in oggetto.”

Se dunque Libia, Francia e Usa potevano avere mezzi aereonavali nel teatro dell’incidente, questi stessi tre Stati si sono segnalati per la loro insufficiente collaborazione con la nostra magistratura. “Le indagini, rivoltesi verso attività collegabili alla Francia … sono state irte di difficoltà, quando non bloccate da mancate risposte ed ingiustificati silenzi, comunque trascurate o disdegnate quasi come se si fosse rimasti offesi dalle pretese di sapere o semplicemente perché ritenuti sospettati.”

Quanto agli Stati Uniti, essi “si sono premurati di dare risposta a tutti i quesiti loro rivolti”, ma tali risposte non danno un contributo rassicurante sull’assenza di mezzi statunitensi in quel lasso di tempo, né separano nettamente le presenze incontestabili dall’evento di disastro.

“Sulla Libia”, secondo il magistrato, “non vi sono parole. È un Paese così distante dalle democrazie occidentali che qualsiasi colloquio appare difficile, se non impossibile. E infatti, oltre alle chiamate in reità degli Stati Uniti da parte del colonnello Gheddafi, l’assoluta inattendibilità della versione sulla caduta del MiG e la costituzione di una improbabile commissione d’inchiesta, venuta in Italia per chiedere informazioni e non per darle, nessuna altra voce.”

Venerdì 18 luglio 1980, a tre settimane dal disastro, in agro di Castelsilano, sulla Sila, viene rinvenuto un MiG 23 monoposto delle Forze Armate libiche: un costone di rocce è disseminato di rottami, il cadavere del pilota, dall’apparente età di 25-30 anni, è a mezza costa, a circa 60 metri vi sono tre grossi tronconi di aereo. Anni dopo, il 14 ottobre 1989, l’Agenzia libica Jana diffondeva il seguente comunicato riguardo al disastro di Ustica: “Si è trattato di un brutale crimine commesso dagli USA, che hanno lanciato un missile contro l’aereo civile italiano, scambiato per un aereo libico, a bordo del quale viaggiava il leader della rivoluzione colonnello Mohammer Gheddafi.”

Di altro segno un’intervista pubblicata sul settimanale “Oggi” del 24 maggio 1987, in cui l’ex Primo Ministro libico Abdel Hamid Bakkush, esule in Egitto e capo della più forte organizzazione anti-gheddafiana, dichiara che era stato il colonnello a dare l’ordine di abbattere il DC9 dell’Itavia.

Certamente la Libia non poteva considerarci nemici. Il primo pensiero va subito al fatto che è libica una consistente fetta del capitale azionario della Fiat. E sarà l’azienda torinese, con il suo amministratore delegato Romiti, a mettersi in moto subito per chiedere il recupero e la restituzione dei resti del MiG libico misteriosamente trovato sulla Sila. Dalle carte delle indagini risulta poi che presso le Officine Aeronavali di Venezia Tessera, in quegli anni, aggirando ogni tipo di embargo vigente contro la Libia, Lockeed C130 Hercules libici venivano modificati da civili in militari.

Sempre dagli atti emerge l’esistenza di un accordo segreto che prevedeva l’utilizzazione di aeroporti jugoslavi da parte di velivoli militari libici per addestramento e riparazioni. Gli aeroporti jugoslavi erano raggiungibili attraverso il Mediterraneo centrale, lo Ionio ed il basso Adriatico, con il sorvolo dello spazio aereo italiano; su questi sorvoli, i nostri controlli di avvistamento aereo chiudevano amichevolmente un occhio. Esistono documenti di centri Sismi che pongono in relazione la sciagura del DC9 Itavia con la vicenda della caduta del MiG libico sulla Sila

Nel dicembre del 1980 un giornale inglese, l’“Evening Standard”, pubblicava un articolo in cui si adombravano responsabilità francesi nell’abbattimento del DC9. Vi si legge che “l’aereo è stato colpito da un missile a guida infrarossa lanciato durante un’esercitazione. Si pensa che il missile sia stato accidentalmente attratto dai motori del DC9, più potenti di quelli del radiobersaglio verso cui era diretto. Fonti bene informate a Roma dicono che il missile è stato lanciato da un aereo militare decollato da una portaerei francese”.

La ricerca di una portaerei alla quale sembravano portare molte tracce radar rilevate nella giornata del 27 giugno 1980 ha molto impegnato gli inquirenti, i quali arrivarono alla conclusione che la portaerei francese Foch era giunta al porto di Tolone (Costa Azzurra) il 26 giugno, mentre la Clemenceau vi giungeva nella giornata successiva

Nel febbraio del 1992 l’ammiraglio francese Lacoste, già direttore del Servizio esterno francese, in un’intervista faceva generico riferimento a controlli compiuti in Francia, due anni prima, per accertare eventuali coinvolgimenti di aerei o navi francesi la sera del 27 giugno 1980, concludendo che tale inchiesta aveva avuto esito negativo. Ma quando da parte italiana si chiedono informazioni e documentazione su tale inchiesta, non si ottiene nessuna risposta. Nessuna risposta anche sui velivoli libici che volano da aeroporti francesi a Tripoli, sui velivoli con sigle d’origine francese registrati dai radar, sulle attività della base di Solenzara e sulle esercitazioni aeree francesi la sera dell’incidente, nonché sull’eventuale adozione sui caccia francesi di serbatoi supplementari del tipo rinvenuto in mare vicino ai relitti del DC9.

Risulta invece evidente, dall'ascolto delle conversazioni fra i siti radar militari, una grande tensione per la presenza di aerei militari, probabilmente americani, nella zona dell'incidente. Altrettanto chiara dalle registrazioni la ricerca di una portaerei, la cui presenza appare indicata da tracce radar che partivano dal mare. Portaerei che gli investigatori hanno creduto di individuare nella Saratoga, al tempo in servizio nel Tirreno. Al riguardo, certamente non ha fatto sufficiente chiarezza l'ammiraglio James Flatley, comandante della Saratoga, che in varie interviste e deposizioni ha cambiato più volte versione, parlando di uscita breve per una esercitazione tra la Sardegna e Corsica, di simulata uscita, di esercitazione da fermi, poi ancora di nave ancorata e non in attività. Anche la lettura del diario di bordo lascia perplessi: vengono alla luce cancellature, evidenti riscritture e correzioni, annotazioni per varie pagine (quindi con notevoli differenze temporali) effettuate dalla stessa mano.

A pochi giorni dall'evento arriva allo Stato maggiore dell'aeronautica italiana un telex dal comando americano, nel quale si afferma che non ci sono aerei Usa in zona al momento del disastro. Bisognerà arrivare al 1997 perché l’allora sottosegretario di Stato Usa per gli affari europei e canadesi, John Kornblum, in una conferenza stampa, ammettesse che “è vero, c'erano aerei e navi americane in quell’area”, salvo poi ribadire che “gli Stati Uniti non sono coinvolti in quell'incidente". La copia conforme del telex, tradotto in italiano, viene postdatata al 3 dicembre 80, per non fare apparire che vi era, da subito, una forte preoccupazione da parte italiana per la presenza di aerei militari nell’area e dare a intendere che, quindi, i militari non seguivano minimamente la vicenda.

Un’ulteriore testimonianza contribuisce però a smentire i militari. È quella di Steve Lund, consulente tecnico della Mc Donnell Douglas (la casa costruttrice del DC9), inviato in fretta e furia a Roma a tre giorni dall’incidente. "Ricordo che mi hanno fornito dati radar”, ha dichiarato, “e ricordo che dai calcoli effettuati sui dati emergevano tre punti del tracciato che non sembravano appartenere alla traiettoria dell’Itavia”. Alla fine del suo lavoro, Lund pervenne alla conclusione che i dati non corroboravano in alcun modo l’ipotesi del cedimento strutturale.

Nel 2003 un giovane studioso americano ha messo a disposizione dell'Associazione dei Parenti delle Vittime il "diario" dell’attività dell'ambasciata americana a Roma relativa alla strage di Ustica. A prima vista la documentazione colpisce per la sua mole: sono migliaia di annotazioni dedicate ad un episodio italiano, un “qualunque” incidente aereo senza nessun cittadino americano fra le vittime. La numerazione delle pagine attesta l’esistenza di oltre 1500 fogli, solo la metà sono stati effettivamente consegnati e in questi abbondano gli omissis. Va innanzitutto segnalato che non vi sono notizie della frenetica attività – emersa e provata dalle indagini – della stessa ambasciata americana nella notte dell'incidente. La mole della documentazione denota un particolare interesse e un grande lavorio. L’impressione è che scopo dell’ambasciata non sia documentarsi sulla vicenda e farsi tramite con i vari Enti americani per rendere più agevole le risposte ai vari quesiti degli investigatori italiani e dell’opinione pubblica in generale. L’impegno è, da una parte, infiltrarsi nelle indagini, avere occhi amici all’interno delle varie commissioni peritali, seguire gli sviluppi delle ricerche, avere informazioni dirette e, dall’altro, individuare a livello politico e governativo chi è più interessato all’esito delle inchieste, capirne le intenzioni e cercare di condizionarlo e influenzarlo o addirittura isolarlo. Tutto questo è particolarmente evidente nei riguardi del Governo Amato-Andò. Ed è un fatto che la pressione da parte dell’esecutivo italiano sugli Usa per ottenere informazioni sulla vicenda si affievolisce con il passare del tempo, fino ad accettare senza particolari proteste, nello stesso 2003, il diniego ufficiale della CIA a collaborare durante lo svolgimento del processo in Corte d’Assise a Roma.

Abbiamo visto dunque come le lunghissime indagini abbiamo illuminato i fatti e scandagliato le prove raccolte dandoci una prima descrizione della realtà e di quanto messo in atto per ostacolarla.

Tutto questo non può bastare e non può acquietarsi il nostro desiderio di completa verità davanti alla certezza di altre notizie disponibili presso altri Paesi, amici o alleati: vale la pena ancora domandare. Per una questione di dignità nazionale.

Daria Bonfietti

Presidente Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica


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